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È l’Uomo a Fare la Dieta o la Dieta a Fare l’Uomo?

È l’Uomo a Fare la Dieta o la Dieta a Fare l’Uomo?

È l’uomo a fare la dieta o è la dieta a fare l’uomo? È vera la seconda. Perché l’umanità nasce nel momento in cui inventa il suo regime alimentare. Come dire che homo sapiens e homo edens sono la stessa persona. Mentre i nostri antenati pre-umani si comportavano come animali e mangiavano quel che offriva madre natura. Sostanzialmente carne cruda e vegetali. Un menù per individui forti, ma letale per i più deboli.
Ed è proprio il fatto di scegliere cosa, come e quanto mangiare a far evolvere la specie. Insomma siamo a dieta da sempre. Molto prima che arrivassero i Dukan, Messegué, Atkins, Oshawa. E gli innumerevoli profeti del benessere che oggi dispensano ammonimenti, comandamenti e suggerimenti. Aglio olio e sermoncino.
In realtà non abbiamo inventato nulla che gli antichi non sapessero già. Senza la moderna nutraceutica, ma in compenso dall’alto di una superiore concezione dell’uomo e del suo posto nella natura e nella società. Così, se noi consideriamo la dietetica una parte della medicina, per il grande Ippocrate invece è il contrario. È la medicina a esser parte della dietetica. Semplicemente perché dare a ciascuno il cibo che serve a tenere in equilibrio corpo e anima è il primo e indispensabile presupposto di ogni cura.
Il celebre motto ippocratico «il cibo sia la tua terapia e la tua terapia sia il cibo» è giunto fino ai nostri giorni come leit motif di un’etica dietetica. Proclamata a chiare lettere nel primo punto del rituale giuramento di Ippocrate, in cui i medici promettono ad Apollo, Asclepio, Igea e Panacea, i numi tutelari della loro arte, di regolare la dieta per il bene dei malati.
Dove però la parola diaíta non significa semplicemente modo di mangiare ma forma di vita. Ed è qui la differenza con la nostra idea di regime alimentare. Che per lo più si risolve in un controllo meramente quantitativo delle calorie, del peso e delle misure. Laddove i Greci parlano di vita, noi riduciamo tutto a girovita. Ecco perché le privazioni che ci infliggiamo per avere il ventre piatto e gli addominali a tartaruga spesso non producono altro se non frustrazione e depressione, anoressia e bulimia.
Pericoli che gli antichi intravvedono benissimo. Tant’è vero che nelle Epidemie, un importante testo ippocratico, si cita come esempio estremo di accanimento salutistico, il caso quasi mostruoso di Erodico. Che costringeva i suoi pazienti a fare jogging anche con la febbre, li sfiancava con incontri di lotta e li estenuava con bagni di vapore che li prosciugavano. Magri e scattanti ma spesso agonizzanti.
E lui stesso era il primo a imporsi questa disciplina dissennata, fatta di poco cibo e moltissima palestra. Senza il minimo strappo alla regola, nemmeno il più innocente peccato di gola. Finendo per condurre una vita da moribondo in perfetta salute. Un antenato di quegli ayatollah della leggerezza che oggi vivono da malati per morire sani.
Platone, nemico di ogni eccesso, rimprovera a questo tipo di ortoressici un’attenzione esagerata al proprio corpo che li rende un inutile peso per la polis.
Su questo l’autore della Repubblica non ha dubbi. Le diete non servono a prolungare la vita all’infinito né a produrre highlander performanti e superdotati. Ma a essere felici, operosi e in possesso del giusto equilibrio psicofisico. Che non dipende dall’applicazione pedissequa di format nutrizionali, come facciamo spesso noi, quando ci proponiamo di perdere sette chili in sette giorni.
Ma è il risultato di un circolo virtuoso. Fatto di conoscenza di sé e dei propri limiti. L’effetto di un negoziato tra bisogni e desideri, tra prevenzione e soddisfazione. È in questo senso che
la massima socratica «conosci te stesso» va letta anche alla luce dell’idea platonica della cura di sé. Intesa prima di tutto come capacità di leggere e di ascoltare il proprio organismo, di decifrarne i segnali. E di conseguenza stabilire ciò che è bene e ciò che è male per la salute di ciascuno.
Per questo, secondo Platone, un cittadino responsabile è il miglior medico di se stesso. Nessun luminare può saperne di più e meglio dell’interessato. Siamo a distanza siderale da quell’idea anfetaminica della forma fisica che oggi chiamiamo fitness. E dalle tante mode alimentari lanciate dai guru della nutrizione. Queste sarebbero state considerate delle forme di dietologia per schiavi dagli Ateniesi dell’età di Pericle. Che non a caso distinguono due tipi di medici. Quelli per gli uomini liberi, che dialogano e negoziano le prescrizioni con il malato. E quelli per gli schiavi, che impongono ricette e ordinano regimi come dogmi indiscutibili. Se dunque i Greci non amano gli eccessi, non è certo per sudditanza al diktat della magrezza. Ma per una ragione sociale e politica.
Perché abbuffarsi è il segno di una dismisura disdicevole. Una hybris sempre stigmatizzata, sia sul piano morale che su quello fisico. Perché a fare gli uomini è proprio la misura, la regola. Gli appetiti sregolati sono tipici dei bruti e delle bestie. Come Polifemo che non a caso mangia come un maiale e beve fino a ubriacarsi.
E come Erisíttone, mitico re della Tessaglia, che dopo aver letteralmente divorato tutti gli averi di famiglia, vende perfino sua figlia in cambio di cibo. E alla fine mangia se stesso per placare la sua voracità bulimica. E perfino l’etimologia della parola bulimia — da boûs bue e limós fame — fa capire che gli antichi considerano le grandi abbuffate un comportamento antisociale. Un aggiotaggio delle risorse politicamente scorretto. Molto meglio una dieta sobria ed equilibrata.
Come quelle suggerite da Socrate e dal neoplatonico Porfirio, pane, miele, olio, frutta, verdura, legumi, formaggio. Pochissima carne, poco pesce. E una modica quantità di vino che fa volare il pensiero.
Insomma mangiare di tutto un po’ aiuta a mantenere peso e forma stabili. Evitando le dannosissime diete yo-yo, che fanno male alla salute e alla condotta, su questo sono tutti concordi.
Da Aristotele a Galeno, da Pitagora a Plutarco. È un mangiare sostenibile che diventa contrassegno di civiltà. Critica culturale e ideale politico. Con qualche millennio di anticipo sulla nostra abbondanza frugale.


Marino Niola
per La Repubblica

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