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Storia del Pomodoro e della sua industria: Profitti, Rischi, Distruzione di Ecomonie

Storia del Pomodoro e della sua industria: Profitti, Rischi, Distruzione di Ecomonie
Il pomodoro è originario della zona compresa oggi tra il Messico e il Perù.

L’industria del pomodoro è una delle più grandi del pianeta e crea profitti enormi. Ma a che prezzo? L’Italia, insieme agli Stati Uniti e alla Cina, siede al tavolo dei giganti del settore.

Il pomodoro è originario del Messico e del Perù ed era apprezzatissimo in patria – dove gli Inca e gli Aztechi lo chiamavano xitomatl (da cui l’inglese tomato), cioè “pianta con frutto globoso, polpa succosa e numerosi semi” e lo consumavano ogni giorno, anche sotto forma di salsa.

Il pomodoro giunse in Europa nel 1540, quando il conquistador Hernán Cortés, di ritorno in patria, ne portò alcuni esemplari. I frutti ispirarono il nome “pomo d’oro”, attribuito dal padre della botanica italiana, Pietro Andrea Mattioli (1501-1577) che introdusse la denominazione mala aurea, in seguito tradotto letteralmente “pomo d’oro”.

In Italia il pomodoro fece la sua comparsa nel 1596, sempre come pianta ornamentale delle dimore del Nord, e un ventennio più tardi raggiunse il Meridione, dove il clima favorevole portò frutti più grandi e di colore arancione-rosso, invoglianti – soprattutto tra i poverissimi contadini – al punto da spingere il popolo a consumarli. E bene fece: crudi o cotti, in salsa o fritti nell’olio, nelle minestre e nelle zuppe, gli Italiani del Sud incominciarono ad assaporare il pomodoro quasi un secolo prima di tutti gli altri Europei!

Oggi il pomodoro è diventato uno dei cibi più diffusi al mondo. Li troviamo sulle tavole di tutto il globo: ketchup, sughi, pizza, concentrati, passate, pelati, freschi ed essiccati. Ma non è tutto così rosso e brillante come sembra. Jean Batptiste Malet ha fatto un ‘inchiesta sul campo durata più di due anni e ha seguito la filiera industriale dell’oro rosso. E ha scritto un libro intitolato “Rosso Marcio”, edito da Piemme. L’industria del concentrato e delle passate nasconde parecchi scheletri.

La California è il maggiore produttore mondiale e il mercato dei pomodori californiani sono gli Stati Uniti. La Cina e l’Italia seguono. In Italia si producono pomodori di qualità, in quanto il mercato italiano predilige i pelati che richiedono una lavorazione sia in campo che nell’industria più accurata. Ma produciamo anche passata e concentrato. La Cina è diventata dagli anni 90’ in poi un grande produttore e trasformatore di pomodori.

Il commercio del pomodoro semilavorato segue vie complesse. È in mano a pochi operatori, si tratta di un vero oligopolio. Tradizionalmente i pomodori Italiani venivano lavorati in Italia e poi esportati. I cinesi hanno acquistato in Italia le macchine per la lavorazione del pomodoro e hanno costruito grandi stabilimenti in Cina.

Alcune aziende Italiane del sud acquistano il seme lavorato cinese sotto forma di concentrato. Questo prodotto è spesso di dubbia qualità, ma spesso riesce a passare indenne i controlli doganali dei porti del sud Italia e arriva all’industria dove viene abilmente corretto tramite le ricette di scaltri chimici e quindi rivenduto nei mercati esteri. Quello migliore viaggia verso l’Europa e quello scarsa qualità viene inviato in Africa, dove il pomodoro è ormai uno dei cibi più popolari. Oltre alla frode alimentare che può nascondersi dietro questi giri di passata, c’è un altro grave problema: se importiamo pomodori freschi della Cina, viene applicato un dazio; se invece importiamo il semilavorato, il dazio non c’è e il concentrato o la passata cinese può girare liberamente per l’Europa, in un libero mercato, come prodotto made in Italy, sfruttando così il nostro marchio di qualità e l’assenza di tasse a scapito delle produzioni nostrane.

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I prezzi dei prodotti cinesi sono imbattibili per noi! In molte zone dell’Italia dove si producono pomodori di qualità per i pelati e il biologico, come in California, la coltivazione è quasi tutta meccanizzata. Dove però la proprietà contadina è frazionata e non organizzata, come spesso succede nelle regioni del sud, la raccolta è manuale e ad appannaggio del caporalato che sfrutta i migranti dei ghetti arrivati prima dall’Est Europa e poi soprattutto dall’Africa. I braccianti vengono reclutati presso queste baraccopoli dove vivono in attesa che gli sia riconosciuto lo stato di rifugiato e portati nei campi a lavorare. Mediamente prendono venticinque euro a giornata, di cui cinque sono per il caporale. Non è una storia nuova. Prima erano sfruttate le donne, ora invece abbiamo i nuovi schiavi provenienti dal continente sub-sahariano. La cosa inquietante è che molti di questi migranti erano contadini al loro paese.

In Ghana le aziende cinesi hanno costruito stabilimenti che lavorano il concentrato che importano direttamente dalla Cina. I cinesi hanno deciso di bypassare gli stabilimenti italiani che esportavano in Africa e hanno fatto le loro industrie dove possono mandare senza le seccature dei controlli doganali europei i loro pomodori. Quindi possono mandare in Africa le produzioni di bassa qualità e addirittura deteriorate. Poi lì vengono ammendate per correggerne almeno l’aspetto e venduti con nomi di fantasia che evocano l’Italia agli ignari africani. In Africa si producono buoni pomodori per il mercato del fresco e si producevano anche per gli stabilimenti di trasformazione. In Senegal negli anni sessanta c’era un’azienda di trasformazione del pomodoro che per anni ha utilizzato i pomodori coltivati nel paese.

Il Senegal era in grado di produrre pomodori freschi e lavorati necessari al consumo nazionale. La concorrenza delle aziende cinesi ha distrutto l’industria locale e messo in ginocchio le aziende agricole. Il costo della produzione dei pomodori senegalesi, e quindi del concentrato, era troppo altro rispetto a quello prodotto dalle aziende cinesi in Africa, fatto con gli scarti della produzione cinese e con ammendanti in tale quantità che la percentuale di pomodoro contenuti nelle confezioni è ridotto anche meno del 50%.

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Questo è un macroscopico esempio di come l’industria alimentare in mano a pochi soggetti ha rovinato l’agricoltura locale di molti paesi e ha reso schiavi i braccianti agricoli e i contadini che si devono confrontare in una guerra di prezzi, dove non soli i deboli soccombono ma anche la salute dei consumatori è messa rischio.

Anna

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